La bicicletta dai freni a bacchetta

 

In un mattino freddo d’inverno, alla luce pallida di un sole stanco, ai margini della via, vedo camminare lento, un uomo, dall’aspetto familiare. Una figura magra, imbacuccata in un soprabito di lana blu. Il viso semi coperto da una sciarpa scozzese dai colori sbiaditi e una "papalina" sul capo (da noi il basco viene chiamato papalina). È proprio quel copricapo, ormai fuori moda, che mi fa riconoscere l’individuo al primo colpo d’occhio. È proprio lui, "Gigi il sarto". Carnagione pallida da farlo sembrare sempre malato ed invece eccolo lì, ultra ottantenne che passeggia, lentamente, ma senza tentennamenti. Lo sguardo perso nel panorama, non si cura di chi gli passa vicino e poi, sicuramente, non mi riconoscerebbe nemmeno mi presentassi; sono passati ormai cinquant’anni da quando lo vedevo passare con la sua bicicletta nera dai freni "a bacchetta". Una pedalata dallo stile inconfondibile, una silouette che mi è rimasta impressa, a tal punto da riconoscerlo dopo mezzo secolo. La sua bicicletta: due ruote che lo accompagnavano al lavoro e lo riportavano a casa la sera. Abitava ad un centinaio di metri da casa mia, e per recarsi al lavoro passava proprio davanti la mia porta di casa, e così per anni, estate o inverno, tutti i santi giorni. L’inverno: cappotto blu, giacca e cravatta, l’immancabile papalina e la solita sciarpa scozzese dai colori tenui. D’estate: Camicia chiara a maniche corte, pantalone scuro, e sempre l’immancabile papalina. Una persona distinta, composta, che traspirava dignità in ogni suo movimento. Di mestiere faceva il sarto in una atelier, dove confezionavano abiti e paramenti per il clero. Non ci ho mai parlato, ma non mancavamo mai di salutarci; lui era molto educato e a volte si era fermato a far due parole con mamma o papà. Aveva moglie e figli, che non ricordo di aver mai visto. Per tutto il periodo che rimasi in quella casa, lui, l’ho visto passare, con la sua bicicletta; anche sotto la pioggia battente, con l’ombrello nero, che quando non gli serviva, teneva legato alla canna della bicicletta; persino la neve, non lo aveva mai fermato. Spesso (quasi tutti i giorni) si portava del lavoro a casa, un grosso fagotto legato con lo spago che, non so come facesse, a stargli in equilibrio sul manubrio, tenendolo soltanto con i pollici. Da casa sua, al centro della città dove lavorava, c’erano più di dieci chilometri, dunque, quell’uomo per più di duecentocinquanta giorni l’anno, si faceva 20 chilometri. Poi lasciai quella casa, però qualche volta l’ho ancora intravisto in città, sempre con la sua inseparabile bicicletta e l’eterna papalina. Ora, guardandolo, mi accorgo che il suo viso, sembra non aver percorso mezzo secolo di esistenza, e se non fossero quei capelli bianchi che si intravedono sotto il bordo della papalina, direi che il tempo per lui si sia fermato. Forse mi fermassi e gli dicessi: Salve, mi riconosce? Sono il figliolo di Giovannino e di Perfetta… Forse… mi saluterebbe come faceva allora, quando mi passava vicino con la vecchia bici dai freni a bacchetta. Forse.. ma il tempo non ha risparmiato me; io, sicuramente, sono cambiato tantissimo, non come lui che è mutato ben poco. Preferisco non fargli capire che son passati quasi cinquant’anni e lo lascio con lo sguardo perso nel panorama, di una mattina fredda d’inverno, portando con me il ricordo di quella vecchia bicicletta coi freni a bacchetta.

 

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